Il linguaggio notturno

Per i tipi della Melangolo editore ancora un ‘celum stellatum’ viene a noi: Altiero Spinelli – uno dei padri fondatori dell’Unione Europea – e la ‘grande mutazione’ nella lettura delle sue memorie - “Il linguaggio notturno” - curata da Luciano Angelino.

Condannato dal Tribunale Speciale a sedici anni di reclusione e confino a Ventotene, con Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirshmann, fisserà le basi del Movimento Federalista Europeo con il “Manifesto di Ventotene” ( da non confondere certo con il nostrano federalismo).
Questi cartigli, o meglio questa lettura, ci offre una chiave di comprensione che solo pensieri in libertà, carteggi e appunti possono trasmettere: tra finzione e realtà c’è sempre una terza via o per meglio dire un terzo modo di leggere tra le righe o pieghe dell’anima.
E allora la potenza di questo ‘linguaggio notturno', rimanda alla potenza del verbo già richiamato da d’Annunzio ne ‘Il compagno degli occhi senza cigli’: ‘‘.. sembra che la più potente arma evocatrice debba essere, coma la magia, notturna o antelucana. Ho notato che la bella pagina è quasi sempre scritta nell’ora dei sogni, nell’ora del gallo e della brina. Il corpo è desto, gli occhi sono aperti: ma l’anima è ‘prossima al risveglio’ come quella del dormiente e ha una misteriosa facoltà di penetrare ogni oggetto e di trasmutarsi in esso.
Che cosa è la fantasia se non un sognar di poter sognare?”.

Ecco allora Spinelli, lo Spinelli esoterico, mutuare il satori – o illuminazione:" C’è un linguaggio notturno. Non è un ragionamento che si spiega alla luce del sole e si articola chiaro e comprensibile a tutti, o perlomeno a chiunque voglia far lo sforzo di capire. E’ un linguaggio che respinge gli altri poiché è un puro monologo. ..per parlare con sicurezza la lingua diurna bisogna conoscere quella notturna.. ma pensar la notte, cioè nell’ora del contatto panico, del distacco dalla propria particolare personalità e dalla propria sorte – pensare la notte con il linguaggio del giorno, significa sbagliare ogni meditazione, sforzarsi di conservarsi quando invece bisogna perdersi.
Vuol dire rinunziare a preparare il succoso alimento, piena di misteriosa forza nutritiva, al realistico linguaggio del giorno.”

Ecco allora che ogni e qualsiasi riferimento e riflessione sull’aforisma della politica, sul de profundis, sull’ habeas animam e il suo monologo sulla libertà, diventano esercizio sterile di presentazione di un universo che a noi si è gia rivelato.
di Eloisa Dacquino

Giustizia e Bellezza

Di un tempo in cui uomini e dei si parlavano, amavano, si scontravano e fors’ anche uccidevano, non v’è più traccia: nessun simbolo richiama più alla virtù e il cielo reclama ancora lo spaccio della bestia trionfante.
Così, nella piazza che un tempo radicava bellezza condivisa, tribuni dai modesti profili muovono l’orda selvaggia: privati degli dei e diseducati al bello, lasciamo che altri conducano il nostro destino verso l’impoverimento culturale, il sonno della ragione.

La bellezza – temiamo- se n’è andata a vantaggio dell’efficienza, delle graduatorie, del benessere materiale, del cosmopolitismo, dell’integrazione, in un paese ormai incapace di valorizzare e conservare le proprie istituzioni, i propri tesori artistici e architettonici, la propria identità.
Viviamo di un abbrutimento fatto di immagini che scorrono veloci e portano morte, sopraffazione, violenza; di un abbrutimento che intossica l’anima per il degrado delle periferie, per la mancanza di cura dell’arredo urbano.
In una forma che non è più sostanza e rimanda i nostalgici a un paradiso perduto, c’è bisogno che questa varia umanità distratta da falsi miti e reality show prenda coscienza che oggi - nel mondo in cui viviamo - la barbarie è tra noi e spinge verso un nuovo oscurantismo.

Così , tra delirio e profezia, scorrendo i titoli delle novità nella libreria non molto distante dal Palazzo, ci imbattiamo in un ‘celum stellatum’ per i tipi della Bollati Boringhieri: Giustizia e Bellezza, di Luigi Zoja.
Pensiamo: che sia quella giustizia e bellezza che invochiamo con tutto il nostro essere?
Così leggiamo: “ per la mentalità moderna, la distanza tra etica ed estetica è chiara. L’etica ha scopi universali. Possiamo sottrarci all’estetica ma non all’etica.I Greci, ai quali dobbiamo i due concetti, si sarebbero opposti a questa separazione. Non avevano codici che definissero bellezza o rettitudine. Ma esisteva un consenso generale su entrambi e anche sul fatto che erano intimamente legato. Erano due diverse facce della stessa qualità: la virtù, l’eccellenza.” .
E ancora: “ oggi, nel ricco e mai sazio Occidente, la massa ha accesso a una sovrabbondanza di beni di consumo quotidiano.. ma non ha quasi più accesso alla bellezza. Se hanno un senso le nostre considerazioni sul bisogno umano di sinergia tra etica ed estetica,diventa necessario domandarsi: la moderna inaccessibilità della bellezza non può essere fra i responsabili della diffusa indifferenza verso la giustizia?”.

Alla risposta rimandiamo il lettore più attento, come alla lettura di questo testo che nelle analisi di Luigi Zoja - analista junghiano – offre un tassello importante alla discussione più che mai attuale, sulla centralità di valori condivisi, di tensione costante alla bellezza che inscindibilmente è legata all’etica del fare e l’assoluta necessità e urgenza di rispetto e difesa della legalità e laicità del nostro paese.
di Eloisa Dacquino

Suoni dell’esilio al Piccolo Teatro di Milano

Grande ritorno di Moni Ovadia al Piccolo di Milano con la musica klezmer di ‘ Oylem Goylem’, in occasione del ventennale del Cabaret Yiddish. Rappresentato per la prima volta nel 1993 e diventato ormai un cult, al Piccolo offrirà due settimane di repliche da Natale all’Epifania, compresa recita di fine anno.

Al centro dello spettacolo l’ebreo errante, il suo essere senza patria e con lui l’universale e attuale condizione di tutti i popoli che non hanno patria, estranei sulla terra che calpestano.
Un “cabaret rituale” dunque quello di Ovadia, che alterna musica e canti alle storielle e alle battute fulminee del raffinato umorismo ebraico, declinando la cultura ebraica in tutta la sua vastità tra gli estremi della lingua, l’Yiddish e la musica, il Klezmer.
Ecco allora l’intreccio di toni dal canto liturgico, monocorde, dolente della sinagoga, all’esplosiva festosità di canzoni e ballate “ ho sempre pensato che la condizione dell’esilio oltre ad avere connotazioni di carattere socio- giuridico- esistenziali – dice Moni Ovaia – dovesse essere riconosciuta per caratteri ‘organolettici’ e fra questi il mio particolare interesse: il suono”.

A noi piace ricordare ciò che commentava Raboni sulle colonne del Corriere della Sera e cioè che “ alla fine ci si rende conto di essere stati ammessi – per una sera e forse per sempre – allo spirito di una cultura capace come nessun’ altra di farci familiarizzare con l’assoluto, stemperando con infinita pazienza e tolleranza il tragico nel comico e il soprannaturale nel quotidiano”.

Piccolo Teatro Strehler – largo greppi Milano – dal 22 dicembre 2008 al 6 gennaio 2009
di Eloisa Dacquino

Il terzo modo

Definito dal premio nobel Eugenio Montale in un articolo per il Corriere della Sera un “ libro inquietante” ( mai pubblicato per volere della stessa autrice e contenuto ora nella postfazione della raccolta di poesie curata da Carlo Angelino per i tipi della Melangolo Editore) disegna - questo ‘Terzo Modo’ di Annalisa Cima - un cammino eccentrico, radicalmente umano di una donna che si interroga e scorpora il tempo, il vivere, il pensare.

Pubblicato per la prima volta nel dicembre del 1969 dall’editore Vanni Scheiwiller, nella poetica d’avanguardia (ah! le donne di allora), contrasta con rigore intellettuale la forma per creare infinite e più geometrie del pensiero; è ragione degli altri per capire il proprio ruolo storico e vincere il proprio destino, rifiuto del potere e rifugio nelle arti alla continua ricerca dell’essenziale : “contestato il sistema gettiamo fiori neghiamo il passato,permessi i connubi tra fratelli:plauso al gusto che cambia, benedette le nozze omosessuali: gioco in attesa di inutili natali. Partecipi al vero, solo che distingue uomo da uomo, testimoni e vittime di precedenti incarnazioni .Il sistema è violenza di fronte alle idee, vanità che costringe alla parte da rappresentare”.

Felici intuizioni e rimandi quanto mai attuali ci regala Annalisa Cima, nella nostalgia del vero, nel volo del sapere, nella fierezza ed assoluta libertà di pensiero.
Che ora - ripercorrendo quel filo sottile che ancora ci accomuna e unisce - richiamiamo dall’oblio: qui ed ora, per non dormire.
di Eloisa Dacquino

Manifesto della donna futurista


" Le donne sono le Erinni, le Amazzoni, le Semiramidi, le Giovanne d'Arco, le Jeanne Hachette; le Giuditte e le Carlotte Corday; le Cleopatre e le Messaline; le guerriere che combattono con più ferocia dei maschi, le amanti che incitano, le distruttrici che, spezzando i più deboli, agevolano la selezione attraverso l’orgoglio e la disperazione, ’ la disperazione che dà al cuore tutto il suo rendimento’.”

Nell’anno delle massime celebrazioni futuriste, ci sembra opportuno - quanto mai provocatoriamente opportuno - dare spazio alle donne o meglio una sveglia! alle donne (da quelle stile focolare domestico alle 'veline', dalle intellettuali a quelle dei 'briefing'), con il manifesto decisamente 'al di là del coro’ di Valentine de Saint Point, figura di rilievo dell’avanguardia dell’inizio del XX secolo, (pseudonimo di Anne Jeanne Valentine Marianne Desglans de Cessiat-Vercell), pronipote di Lamartine. Dalla storia dimenticata ( il suo peccato originale - l’essere donna), nel 1912 scrive il "Manifesto della Donna Futurista" in risposta al misogino Marinetti, con il quale ebbe peraltro una laison.
Nata a Lione nel febbraio del 1875, poetessa, pittrice,danzatrice, vigorosa e non meno virile nel ‘Manifesto della Lussuria’ che pubblica sotto forma di volantino in Francia e in Italia nel 1913, si oppone polemicamente al femminismo ufficiale: tra Nietzsche e Barrès, proclama l’avvento di una “superfemmina”, esprimendosi per la totale emancipazione erotica della donna. La sua danza, ‘Métachorie', è “l’espressione plastica delle idee al di là della sensualità e del sentimentalismo ancora in vigore nella danza classica“.

Contestata per la dimensione erotica della sua opera, coraggiosamente solitaria nella rivendicazione a essere donna libera, sublime, contro la morale e l’ipocrisia borghese, nella traduzione di Armando Lo Monaco e nei testi annotati da Jean Paul Morel per i tipi della Melangolo editore, ci restituisce lo spirito indomito di un donna che tutte le comprende e riscatta, nel pensiero libero, consapevole , audace. E se il mondo artistico e intellettuale dell’epoca non le ha perdonato l’ardimento, l’esilio in Egitto e le pratiche mistico-esoteriche, l’anno delle celebrazioni futuriste rendano omaggio, Milano renda omaggio, ora, a quella metà dell’avanguardia così 'virilmente donna' ( in senso futurista), la cui figura risulta essere così congeniale alle icone del decò tale da meritare vetrina e visibilità pari ai più conosciuti artisti e intellettuali dell'epoca.

Sapranno Milano e il suo nuovo Assessore alla Cultura accogliere questa nostra sfida?

di Eloisa Dacquino