La Costituzione non è un residuato bellico

(...)"La Costituzione repubblicana non è dunque una specie di residuato bellico, come da qualche parte si vorrebbe talvolta far intendere. Essa fu preparata da indagini a tutto campo e cospicue pubblicazioni del Ministero per la Costituente, che esplorò tra l’altro le Costituzioni e le leggi elettorali dei principali altri paesi, mettendo a confronto le esperienze altrui e le condizioni del nostro paese. La Carta che scaturì dall’Assemblea Costituente, nacque dunque guardando avanti, guardando lontano : essa seppe – partendo da esperienze drammatiche, di cui scongiurare ogni possibile riprodursi – dare fondamenta solide e prospettive di lunga durata al nuovo edificio dell’Italia democratica. Quelle fondamenta poggiavano sui valori maturati nell’opposizione al fascismo, nella Resistenza, in nuove elaborazioni di pensiero e programmatiche ; quelle prospettive furono affidate a uno sforzo sapiente, nelle formulazioni e negli indirizzi della Carta, per tenere aperte le porte del nuovo edificio alle imprevedibili evoluzioni e istanze del futuro.I valori dell’antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, sprigionarono sempre impulsi positivi e propositivi, e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è festa di una parte sola. Principi e diritti. Principi cui ispirare la legislazione, la giurisprudenza, i comportamenti effettivi di molteplici soggetti pubblici e privati ; diritti da garantire, anche attraverso il ricorso alla giustizia, da rispettare nel concreto dei rapporti sociali e civili. Questo è un punto sul quale vale la pena di insistere. La Costituzione non è una semplice carta dei valori. Essa ha certamente una forte carica ideale e simbolica, capace di ispirare e unire gli italiani. Ma i suoi ideatori mirarono a farne un corpo coerente di principi e norme che avessero, senza eccezione alcuna, “un valore giuridico come direttiva e precetto al legislatore e criterio di interpretazione per il giudice”. Con quelle parole si espresse il Presidente della Commissione dei 75 che in seno all’Assemblea Costituente aveva predisposto il progetto di Costituzione ; e la prima sentenza della Corte Costituzionale istituita nel 1955 stabilì che anche le disposizioni cosiddette programmatiche contenute nella Costituzione avevano rilevanza giuridica.Insomma, la Costituzione repubblicana non solo non fu mai intesa come manifesto ideologico o politico di parte ; ma nemmeno si limitò a formulare valori nazionali, storico-morali, unificanti. La nostra come ogni altra Costituzione democratica è legge fondamentale, architrave dell’ordinamento giuridico e dell’assetto istituzionale. E in quanto tale essa va applicata e rispettata : applicata non una volta per tutte, ma in un processo inesauribile di adesione a nuove realtà, a nuove sensibilità, a nuove sollecitazioni. Così l’hanno intesa ed applicata governi e Parlamenti della Repubblica, così l’ha intesa, e ha vegliato sul suo rispetto, la Corte Costituzionale.E’ legge fondamentale, è legge suprema, la Costituzione, anche e innanzitutto nel segnare i limiti entro cui può svolgersi ogni potere costituito e viene “disciplinata” la stessa volontà sovrana del popolo (Fioravanti 2009). Si rifletta, a questo proposito, sul primo articolo della nostra Carta Costituzionale, là dove recita : “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Una volta cioè che il potere costituente espresso dal popolo sovrano con l’elezione di una assemblea investita di quel mandato si sia compiuto, ogni ulteriore espressione della sovranità popolare, ogni potere delle istituzioni rappresentative, il potere legislativo ordinario come il potere esecutivo, riconosce la supremazia della Costituzione, rispetta i limiti che essa gli pone. Questa è caratteristica essenziale della moderna democrazia costituzionale, quale si è voluto fondarla in Italia, con il più ampio consenso, alla luce delle esperienze del passato e con l’occhio rivolto ai modelli dell’Occidente democratico. Comune a quei modelli, pur nella loro varietà, è il senso dei limiti che non possono essere ignorati nemmeno in forza dell’investitura popolare, diretta o indiretta, di chi governa.Rispettare la Costituzione è dunque espressione altamente impegnativa : ben al di là di una superficiale e generica attestazione di lealtà. Rispettarla significa anche riconoscere il ruolo fondamentale del controllo di costituzionalità e dunque l’autorità delle istituzioni di garanzia. Queste non dovrebbero mai formare oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti, al di là dell’espressione di responsabili riserve su loro specifiche decisioni. Tutte le istituzioni di controllo e di garanzia non possono essere viste come elementi frenanti del processo decisionale, ma come presidio legittimo di quella dialettica istituzionale che in definitiva assicura trasparenza, correttezza, tutela dei diritti dei cittadini.Questo richiamo ad essenziali caratteristiche della democrazia costituzionale non ha nulla a che vedere con una visione statica della nostra Carta, con una sua celebrazione fine a se stessa o con l’affermazione della sua intoccabilità. Ho già detto delle potenzialità che presentano principi e indirizzi introdotti nella Costituzione repubblicana in termini tali da tenere le porte aperte al futuro : è perciò giusto e possibile avere della nostra Carta una visione dinamica, scavare in essa per coglierne tutte le suggestioni attuali. Si deve così far vivere la Costituzione : come in sessant’anni si è già, attraverso molteplici contributi, teso concretamente a fare.Nello stesso tempo, va ancora una volta ripetuto che gli stessi padri Costituenti vollero prospettare possibili esigenze e precise procedure di revisione della Costituzione. Il testo entrato in vigore il 1° gennaio 1948 è stato d’altronde già toccato, già riveduto in decine di articoli, qualcuno dei quali, in anni recenti, di notevole rilievo, e in un intero Titolo della Seconda Parte. E su ulteriori revisioni il discorso è non solo pienamente legittimo, ma per generale riconoscimento obbiettivamente fondato. Ad una revisione più ampia della Costituzione si lavorò concretamente in Parlamento nel 1993-94, nel 1996-97 e nel 2004-2006, sulla base di procedure esse stesse integrate rispetto a quelle segnate nell’art. 138.Nessuno di quei tre tentativi di riforma – relativi alla seconda parte della Costituzione, e cioè all’“ordinamento della Repubblica” – è, in diverse circostanze e per diverse ragioni, andato a buon fine. Ma le forze politiche presenti in Parlamento convergono largamente sulla necessità che quell’“ordinamento” richieda di essere riveduto e adeguato in più punti. Non si può solo denunciare il rischio che esso sia stravolto. Si ricordi che se ne postulò, nel modo più autorevole già dopo le elezioni del 1992, una revisione che (disse l’allora appena eletto Presidente della Repubblica) incidesse “nell’articolazione delle diverse istituzioni” : ridefinendone i caratteri, le prerogative, il modo di operare dell’una o dell’altra, e ridefinendo gli equilibri tra esse.Spetta ancora una volta al Parlamento pronunciarsi sulla possibilità di procedere in questa direzione, sugli obbiettivi da perseguire, sul grado di consenso a cui tendere. Pur non potendo – nell’esercizio del ruolo attribuitomi dalla Costituzione – esprimere indicazioni di merito, suggerire ipotesi di soluzione, ritengo che sia mia responsabilità esortare le forze presenti in Parlamento a uno sforzo di realismo e di saggezza per avviare il confronto su essenziali proposte di riforma della seconda parte della Costituzione, sulle quali sia possibile giungere alla più ampia condivisione. Lo spirito dovrebbe essere quello, come si è di recente autorevolmente detto, di una rinnovata “stagione costituente”. Non c’è da ripartire da zero ; non c’è da arrendersi a resistenze conservatrici né, all’opposto, da tendere a conflittualità rischiose e improduttive ; occorre che da tutte le parti si dia prova di consapevolezza riformatrice e senso della misura. Non c’è da ripartire da zero, anche perché sia attraverso revisioni parziali della Carta del 1948, sia attraverso innovazioni nelle leggi elettorali e nei regolamenti parlamentari, nonché in rapporto a cambiamenti prodottisi nel sistema politico, i termini di diverse questioni sono già sensibilmente mutati. E’ in corso una visibile evoluzione – in senso regionalistico federale – della forma di Stato ; e in quanto alla forma di governo, pur essendo essa rimasta parlamentare, non trascurabili sono le nuove modulazioni che ha già conosciuto.Nell’ambito della forma di governo parlamentare, che è quella di gran lunga prevalente in Europa, sono possibili, e in effetti si sono espressi, equilibri diversi tra governo e Parlamento, tra potere esecutivo e potere legislativo, e anche tra questi due poteri e quello giudiziario. La Costituzione italiana del 1948 fu certamente contrassegnata da un’accentuazione delle prerogative del Parlamento rispetto a quelle del governo. Le esigenze di stabilità e di efficienza decisionale di quest’ultimo rimasero allora in secondo piano. Ma molte cose sono via via cambiate, già negli anni ’80 con le riforme dei regolamenti parlamentari, e sempre di più a partire dagli anni ’90 con il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e all’istituto del voto di fiducia e da ultimo con il rafforzarsi del vincolo tra governo e maggioranza parlamentare, così come con il drastico ridursi della frammentazione politica in Parlamento. Ciò ha indotto uno studioso e protagonista come Giuliano Amato a giudicare (in un suo recente scritto) “oggi obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento”.E allora, è del tutto legittimo politicamente, ma partendo da questi dati di fatto, e dunque senza cadere in enfasi polemiche infondate, verificare quali concreti elementi di ulteriore rafforzamento dei poteri del governo, e di chi lo presiede, possano introdursi sulla base di motivazioni trasparenti e convincenti.Quel che è risultata, anche di recente, condivisa e percorribile è di certo l’ipotesi di una riforma della Costituzione che segni il superamento dell’anomalia di un anacronistico bicameralismo perfetto, il coronamento dell’evoluzione in senso federale, da tempo in atto, come ho ricordato, con la istituzione di una Camera delle autonomie in luogo del Senato tradizionale. Ne scaturirebbe anche una razionalizzazione del processo legislativo, e con essa quel “legiferare meglio” che viene giustamente sempre più spesso, e finora invano, invocato.Vorrei però a questo punto allargare la visuale della mia riflessione per cogliere – al di là dello specchio spesso deformante delle dispute politiche strettamente italiane – questioni e dilemmi che attraversano, e già da tempo, il discorso sulla democrazia in Occidente. Da decenni ormai si è aperto il dibattito generale sulla governabilità delle società democratiche : nelle quali, a una crescente complessità dei problemi e a un tendenziale moltiplicarsi delle domande e dei conflitti, non corrispondono capacità adeguate di risposta, attraverso decisioni tempestive ed efficaci, da parte delle istituzioni.Nell’affrontare a suo tempo questo tema cruciale, Norberto Bobbio osservò che mentre all’inizio della contesa sul rapporto tra liberalismo e democrazia “il bersaglio principale era stato la tirannia della maggioranza”, esso stava finendo per assumere un segno opposto, “non l’eccesso ma il difetto di potere”. E Bobbio aggiunse, pur senza eludere il problema : “la denuncia della ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie”. Un monito, quest’ultimo, che non si dovrebbe dimenticare mai. E dal quale va ricavata l’esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle “principali istituzioni del liberalismo” – concepite in antitesi a ogni dispotismo – tra le quali –, nella classica definizione dello stesso Bobbio, “la garanzia di diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche”. E sempre Bobbio metteva egualmente l’accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull’indipendenza della magistratura, sul principio di legalità.Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile – esplicitamente o di fatto – sull’altare della governabilità, in funzione di “decisioni – definizione di Bobbio - rapide, perentorie e definitive” da parte dei poteri pubblici. Ho evocato – ed è di certo tra gli istituti non sacrificabili – la distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) ; e mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del Capo dello Stato come “potere neutro”, secondo il principio che, enunciato da Benjamin Constant due secoli fa, ispirò ancora i nostri padri costituenti nel disegnare la figura del Presidente della Repubblica. Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento : a proposito della quale penso si possa dire che essa non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un’eccessiva frammentazione politica, ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto col territorio e con gli elettori.In definitiva, non si può ricorrere a semplificazioni di sistema e a restrizioni di diritti in nome del dovere di governare. Grande è certamente la difficoltà del governare in condizioni di pluralismo sociale, politico e istituzionale, e ancor più in presenza, oggi, della profonda crisi che ha investito le nostre economie. Ma non c’è, sul piano democratico, alternativa al confrontarsi, al combinare ascolto, mediazione e decisioni, al giungere alla sintesi con la necessaria tempestività ma senza sacrificare i diritti e l’apporto della rappresentanza.E a ciò non si sfugge nemmeno nei sistemi politico-istituzionali che sembrano assicurare il massimo di affermazione del potere di governo affidato a una suprema autorità personale. Mi riferisco naturalmente a sistemi e modelli autenticamente democratici come quello presidenzialista degli Stati Uniti d’America : dove, al di là del mutare o dell’oscillare, nel tempo, dell’equilibrio tra Presidente e Congresso, a quest’ultimo, cioè alla rappresentanza parlamentare, nella sua netta separazione dall’esecutivo, viene riservata sempre un’ampia area di influenza e di intervento – e in definitiva l’ultima parola – nel processo deliberativo. Anche nei momenti, aggiungo, di emergenza e urgenza nazionale, come ci dicono le recenti vicende del complesso rapporto – sul terreno legislativo – tra il nuovo Presidente, la nuova Amministrazione americana, e il Congresso degli Stati Uniti.Si parla da tempo, e spesso, di crisi della democrazia rappresentativa, in riferimento all’indebolirsi delle sue istituzioni e della fiducia che in esse ripongono i cittadini. Ma da più parti si sono venute positivamente proponendo concezioni più ampie, che vedono – si è scritto – “la rappresentanza come processo che connette la società e le istituzioni”, che affidano alla politica le responsabilità di un legame operante “tra l’interno e l’esterno delle istituzioni politiche”, l’attivazione di una “corrente comunicativa” – espressione che a me pare molto felice di una nostra studiosa – “tra società civile e società politica” (Urbinati, 2006). E in questo senso si è in effetti venuto aprendo il campo di ricerche e proposte interessanti per giungere a forme concrete di democrazia partecipativa e deliberativa diffusa : forme concrete sperimentabili in particolar modo attraverso il raccordo tra assemblee elettive regionali e locali e realtà associative e canali di consultazione e di coinvolgimento dei cittadini in trasparenti processi decisionali. Non una datata contrapposizione ideologica, cioè, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, ma uno sforzo d’integrazione tra istituzioni, nell’esercizio delle loro funzioni e prerogative, ed espressioni di un più vasto moto di partecipazione democratica a tutti i livelli.L’esigenza di suscitare la vicinanza e l’adesione, non passiva ma vigile e propulsiva, dei cittadini alle istituzioni democratiche, l’esigenza di evitare un fatale indebolimento di queste ultime per effetto di tendenze al distacco, alla sfiducia, all’indifferenza da parte dei cittadini, appare complessa come non mai nell’attuale fase storica – ed è questo l’ultimo punto che vorrei brevemente toccare. E’ in atto da tempo un passaggio dalle dimensioni nazionali della sfera decisionale a dimensioni ultranazionali, europee e globali : e c’è da chiedersi se sia praticabile in questo nuovo contesto quella che si è venuta costruendo in Occidente come democrazia rappresentativa. Questa si impose – ha osservato un eminente studioso dei sistemi democratici, Robert Dahl – con il passaggio storico dalle città-Stato agli Stati nazionali : si è ora in presenza di un “cambiamento altrettanto importante per la democrazia” per effetto del passaggio delle decisioni pubbliche a dimensioni transnazionali.Vengono di qui interrogativi di fondo sulla possibilità di controllare democraticamente le organizzazioni internazionali, le decisioni prese a quel livello. E questi interrogativi stanno assumendo – appare chiaro – una stringente attualità. Sulle risposte ipotizzabili il dibattito è aperto in tutta la sua complessità. Ma io desidero richiamare l’attenzione su un processo che è già in atto e che può rappresentare un approccio fecondo al discorso sul governo della globalizzazione : parlo del processo delle integrazioni regionali, continentali o sub-continentali, che si è concretamente prodotto in Europa ma tende a prodursi anche fuori d’Europa.La Comunità e quindi l’Unione Europea hanno rappresentato forme originali, da oltre cinquant’anni a questa parte, di esercizio condiviso della sovranità al livello sovranazionale. Ed è peraltro un fatto che alla crescita di questa esperienza, dai primi Trattati tra i sei paesi fondatori in poi, si è accompagnata la preoccupazione di un deficit democratico, in quanto le decisioni che si concentravano in istituzioni come la Commissione e il Consiglio sembrarono a lungo sfuggire a un controllo democratico. A differenza, si diceva, delle istituzioni tradizionali degli Stati nazionali. Ma essendo un fatto irreversibile la perdita da parte di questi ultimi di quote crescenti della loro sovranità, imponendosi sempre di più – e mai come oggi questa ci appare un’esigenza imperiosa – decisioni e politiche comuni al livello europeo, non poteva non sorgere la questione del dar vita e forza a istituti e forme corrispondenti di democrazia sovranazionale.Ebbene, questa esigenza dopo essere rimasta, per non breve tempo, largamente insoddisfatta, ha via via trovato sbocco nel rafforzamento dell’investitura e del ruolo del Parlamento europeo. Non si può certo dire che ogni insufficienza, ambiguità e contraddizione, sia stata risolta. Ma passi in avanti decisivi sono stati compiuti, dall’elezione diretta, a suffragio universale, del Parlamento europeo all’attribuzione, che gli è stata sempre più riconosciuta, di poteri determinanti nella formazione delle leggi dell’Unione, e anche di più incisive funzioni di indirizzo e di controllo nei confronti dell’esecutivo, identificato nella Commissione di Bruxelles. Il Parlamento europeo si sta dunque affermando come l’istituzione sovranazionale per eccellenza e come garante della legittimità democratica dell’Unione : dovrebbero esserne consapevoli gli elettori chiamati di qui a poco a votare per il Parlamento di Strasburgo. Speriamo che si parli di ciò nella campagna elettorale, e non di meschine vicende di politica interna.Nello stesso tempo, con il Trattato costituzionale poi abortito ed egualmente, però, con il Trattato di Lisbona di cui si sta completando la ratifica, si sono aperte nuove possibilità di cooperazione e sinergia tra istituzioni europee, segnatamente il Parlamento europeo, e i Parlamenti nazionali; e nuove possibilità di comunicazione e di dialogo strutturato tra istituzioni europee e società civile. Non a caso dunque l’esperienza dell’integrazione europea viene ormai assunta come riferimento – anche sotto il profilo della governabilità democratica – per gli analoghi processi che si avviano in altri continenti e per le strade da intraprendere sul piano globale.L’impegno per l’ulteriore, più conseguente sviluppo dell’integrazione europea è per noi italiani parte essenziale dell’impegno a proiettare nel futuro la nostra Costituzione repubblicana. La prospettiva dell’Europa unita, a favore della quale consentire alle necessarie limitazioni di sovranità, fu evocata nel dibattito dell’Assemblea costituente e fu di fatto anticipata nel lungimirante dettato dell’articolo 11 della nostra Carta. Per consolidare, far vivere e crescere la democrazia in Italia e in un mondo in così impetuosa trasformazione, bisogna non solo “presidiare” la Costituzione, tutelare e riaffermare i principi e i diritti che essa ha sancito alla luce di dure lezioni della storia ; bisogna di continuo calarla nel divenire della società italiana e anche della società internazionale.Sappiamo – lo vorrei dire in modo particolare ai più giovani - quali orizzonti nuovi la Costituzione abbia aperto per il nostro paese : orizzonti di libertà e di eguaglianza, di modernizzazione e di solidarietà. La condizione per coltivare queste potenzialità, in termini rispondenti ai bisogni e alle istanze che maturano via via nel corpo sociale, nella comunità nazionale – la condizione per rafforzare così le basi della democrazia e il consenso da cui essa può trarre sicurezza e slancio – è in un impegno che attraversi la società, che si faccia sentire e pesi in quanto espressione della consapevolezza e della volontà di molti, uomini e donne di ogni generazione e di ogni ceto.In queste settimane, dinanzi alla tragedia del terremoto in Abruzzo, l’Italia è stata percorsa da un moto di solidarietà che ha dato il senso della ricchezza di risorse umane – vere e proprie, preziose riserve di energia – su cui il paese può contare, in uno spirito di unità nazionale. Se ne può trarre, io credo, un buon auspicio anche per il manifestarsi, più in generale, di quella sensibilità democratica e di quell’impegno dei cittadini, a sostegno dei principi e degli indirizzi costituzionali, di cui ho appena indicato la necessità. Parlo di un rilancio, davvero indispensabile, del senso civico, della dedizione all’interesse generale, della partecipazione diffusa a forme di vita sociale e di attività politica. Parlo di uno scatto culturale e morale e di una mobilitazione collettiva, di cui l’Italia in momenti critici anche molto duri – perciò, oggi, di lì ho voluto partire – si è mostrata capace. L’occasione per mostrarcene ancora capaci è data dalla crisi profonda che ha investito, in un contesto mondiale nuovo e complesso, l’economia e la società italiana. L’appello è ad esserne, ciascuno di noi, pienamente all’altezza."


LEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO ALLA PRIMA EDIZIONE DI BIENNALE DEMOCRAZIA - Torino – Teatro Regio, 22 aprile 2009

Avec le temps

In un mondo improvvisamente colto dall’elogio della lentezza che scopre e celebra lo “Slow Down Festival” dopo aver bruciato nell’ultimo ventennio non solo l’economia, quanto i valori che attengono all’etica del fare e alla Virtù; tra dibattiti, seminari, libri, giornate mondiali a promuovere questa ‘nuova filosofia di vita', questi ditirambi celebrano l’uomo nell’unità di corpo – mente - cuore, attraverso un Tempo e un linguaggio che non muta se la cornice cambia, di rara bellezza e forza intuitiva: notturno, antelucano, come la magia potente arma evocatrice in sintonia con i sogni e l’anima.

Di un Tempo che contempla unicamente il ‘qui ed ora’.

Lo facciamo provocatoriamente attraverso cartigli di straordinaria intensità – la fine di un amore - che rivelano più di quanto la ragione possa filtrare, più di quanto antiche e nuove teorie possano postulare; e lo dedichiamo a quanti superficialmente, distrattamente, conducono la propria vita; a quanti – dissociati in pensieri e parole – sono sempre altrove, anche quando fanno l'amore; a quanti sottraggono ai rapporti personali attenzione, ascolto, condivisione; a quanti delegano ogni decisione, anche la più banale; a quanti trovano sicuro rifugio e giaciglio presso pareti domestiche, magari sotto protettive ‘ali’ materne pur di non affrontare se stessi, le proprie insicurezze e il mondo perché questo costa fatica, sacrificio e a volte anche solitudine; a quanti - chiusi nel piccolo mondo di abitudini quotidiane - soffocano quello di chi sta loro accanto con il vittimismo, l’egoismo e l'impetuosità di gesti che manifestano unicamente il loro male di vivere; a quanti lasciano che l'intensità del momento volga lo sguardo altrove, perché troppo assenti, distratti, ripiegati su se stessi, le proprie paure, i propri desideri; a quanti rivendicano e abusano della parola amore, senza conoscere rivoluzione del cuore.

Del perduto amor

Leggendo ‘ pillole di saggezza’ sulle pagine del Corriere della Sera, dispensate dal noto sociologo del lunedì, ci chiediamo: meritano la prima pagina ragionamenti quali : “..il maschio prova piacere sessuale con qualsiasi partner, mentre la ragazza cerca sempre uno che le piaccia. Inoltre per lei il sesso è solo l’inizio, poi vuole qualcosa di più, una emozione, un amore…però le ragazze provano sentimenti amorosi intensi e un desiderio di durata che viene spesso frustrato dalla infedeltà maschile. Alcune reagiscono cercando di comportarsi come maschi, con l’alcool, le droghe, cambiando continuamente partner. Ma è contro la loro natura. Alla fine restano deluse, irritate,, amareggiate e quando trovano il grande amore fanno fatica ad avere fiducia, ad abbandonarsi e possono sciupare anche quello.”
Leggendo tali banalità, ci siamo chiesti come mai lo stesso non abbia continuato nei suoi ragionamenti sull’amore – sugli amori precoci - con frasi tipo ‘ le donne sono più sensibili degli uomini ’ e via dicendo con altri stereotipi e amenità varie.
Ma tant’è , l’immagine della donna tutta dedita all’amore, vulnerabile, ‘piegata’ all’uomo e al sentimento come votata ‘ per natura ’ o per ‘ natura diversa ’ al focolare domestico, è dura a morire e soddisfa quella morale e quel conservatorismo che in periodi di incertezza – morale, economica – relega e vorrebbe relegare le donne nella marginalità, perpetuando nell’immaginario collettivo l’idea della figura delicata e debole.
Stile Anna Verta Gentile, per intenderci.
Così, nel momento delle massime celebrazioni futuriste, vorremmo rispondere non con il ‘ Manifesto della donna futurista ’ di Valentine de Saint Point di cui abbiamo ampiamente e diffusamente parlato, quanto di un altro manifesto – a noi caro – delle donne di Fiume; quella Fiume occupata da D’Annunzio e da quei ‘figli dei fiori’ meno noti e conosciuti di quelli del più famoso ’68, che parteciparono un’avventura rivoluzionaria in linea con le avanguardie del tempo, momento insurrezionale di bravate futuriste e utopie, trasgressione sessuale e pirateria, gioco e guerra.
Così nel 1919 Margherita Keller Besozzi – la legionaria Fiammetta – esorta le donne a ribellarsi alla morale corrente: “Donne, è l’ora del vostro risveglio! Non abbiate paura dell’ipocrisia mascherata da morale. Non temete la verità. Non temete le parole. (…) nonostante la divina luce che irradia oggi dalla città di Vita e d’Amore, la donna di Fiume è forse la sola fra le donne d’Italia che sia, e ci tenga ad essere moralista. Moralista in tutto il senso vile della parola. La donna di Fiume è ancora quella dei romanzi – canzonette napoletane – galateo – Anna Verta Gentile. Vuole essere corteggiata: molto, delicatamente, con tutto e soprattutto con impostura.
Salvo poi a cedere facilissimamente quando un cretino sappia fare come l’idiozia vuole, come vuole il Mondo ( non ancora morto) di ieri.
Ma allora ( per carità!) che non lo si sappia, che non lo si dica, che nessuno se ne accorga. E’ più onesta la donna di Fiume delle donne di tutto il mondo? NO! E’ semplicemente più vecchia. Non si è ancora accorta della sua missione. Non si è ancora accorta della sua funzione. La donna di Fiume non è altro che la madre della donna moderna.
Distruggiamo tutto questo passato.
Libertà.
Spregiudicatezza.
Coraggio.”

Una donna



"..lasciatemi addormentare come Saffo" : 66 anni, autrice di saggi sulla condizione femminile, Roberta Tatafiore si è congedata dal mondo e dai suoi affetti in una stanza d'albergo.
Lucidamente programmato il gesto, come le scelte di vita.

Femminista impegnata, autrice che maggiormente ha contribuito al dibattito intorno le donne - queste sconosciute - sul mercato della prostituzione, sulla pornografia, sulla difficoltà di vivere e resistere alla violenza, di esserci e portare il proprio contributo in un mondo in cui l'esclusione è dogma.
Un mondo che non perdona gli spiriti autenticamente liberi, libertari, capaci di mutare prospettiva pagando anche con la solitudine scelte come il distacco da quello che lei stessa era arrivata a definire " femminismo collettivista".
L'ultima suo intervento - appassionato quanto la donna - contro questo "statalismo chiesastico" esibito sul caso di Eluana Englaro, possiamo leggerlo sul sito di DeA, donne e altri.

Ecco allora che la fine, quella temuta, osteggiata, esclusa dal dibattito e con 'violenza' disciplinata da norme, leggi e leggine, irrompe con forza nel gesto di una donna che ha scelto la libera morte, rivendicandone il gesto.
Colpisce , nel ricordo di chi la conobbe e partecipò con lei avventure, il respiro lieve e l'attenzione sulla donna e il pudore di una sofferenza mai esibita; così Daniele Scalise ricorda Roberta Tatafiore, nell'articolo di Simonetta Fiori pubblicato sul quotidiano La Repubblica: " Come tutte le donne veramente sofferenti - Roberta non esibiva il dolore" e queste parole da sole bastano per cogliere la donna nella fierezza dei gesti che l'hanno accompagnata in vita come negli ultimi mesi, nelle spirito libertario, nelle scelte compiute come intellettuale e militante politica.
Nella solitudine di chi lotta e si spende a spezzare ipocrisie, di chi amando la libertà, rivendica e rispetta l'altrui libertà.

Così, mentre intorno a noi c'è confusione, lotta, smarrimento e una affannosa ricerca della felicità che non contempla la Virtù, rimandiamo al lettore attento il sorriso di chi lascia - dietro - lo stupore degli attoniti.

L'uomo che non sapeva amare


Robert Lepage torna al Piccolo Teatro Strehler con 'The Andersen Project '- scritto nel 2005 in occasione del bicentenario della nascita del celebre scrittore per l’infanzia - per quattro giorni dal 16 al 19 aprile 2009.
Un racconto, una storia di solitudine, che fiorisce in un incantesimo tecnologico: epoche, vite e fiabe si intrecciano e sovrappongono; cinque personaggi, un solo attore in scena, Yves Jacques (nella prima edizione era lo stesso Lepage), effetti speciali strabilianti e una colonna sonora trascinante che amalgama repertorio classico e contemporaneo, spaziando da Donizetti, Grieg, Offenbach a Sweet Surrender di Sarah McLachlan.
Ispirandosi a due racconti tra i meno noti di Andersen " La driade e L’ombra", Lepage costruisce un monologo in cui racconta la storia di Frédéric Lapointe - canadese del Québec - scrittore di testi per canzoni, che si reca a Parigi dove il sovrintendente dell’Opéra Garnier gli ha commissionato la stesura di un libretto per un’opera lirica che avrà come soggetto proprio La driade. Con un magnifico gioco di travestimenti e trasformismo, Yves Jacques si cala nei panni di tutti i personaggi: oltre a Lapointe, interpreta il sovrintendente dell’Opéra, travolto dagli scioperi delle maestranze, in lotta con il ministero e in crisi con la moglie che, subodorandone l’omosessualità, è fuggita con un altro e lo minaccia di portargli via la figlia; è il maghrebino Rachid, che fa le pulizie nel peep show del quartiere malfamato dove Lapointe ha trovato casa e che con le bombolette colorate scrive sui muri del métro messaggi disperatamente grotteschi; ma è anche la Driade, ninfa dei boschi, che baratta la propria immortalità per una notte nella Parigi dell’Expo Universelle del 1867.
Andersen ha avuto una vita molto, molto solitaria… - spiega Lepage - e questa mi è parsa un’ottima ragione per trarne un monologo! In fondo, un monologo è sempre una rappresentazione della solitudine. Così sono partito dalla biografia di Andersen per creare, alla fine, uno spettacolo assolutamente personale, in cui parlo moltissimo di me stesso e altrettanto del travaglio della creazione artistica”
Più di uno spettacolo un evento, un racconto che è storia di una solitudine che fiorisce in un incantesimo tecnologico e regala due ore di magia: Lepage riesce a domare la tecnologia al servizio del meraviglioso facendo reagire insieme - in perfetta alchimia - la natura più profonda del teatro, con effetti speciali high tech, scenografie proiettate e abitabili, video tridimensionali, cartoni animati, cinema, marionette, teatro d’ombre, opera lirica.
Al centro sempre e solo Andersen e i suoi mille volti - il “brutto anatroccolo”, il diverso geniale, l’uomo che non sapeva amare, ma che tanto avrebbe voluto.
Da non mancare.

Piccolo Teatro Strehler, largo Greppi (M2 Lanza) – dal 16 al 19 aprile 2009 'The Andersen Project'

Arlecchino e il suo ambasciatore di nuovo allo Strehler


'Arlecchino servitore di due padroni', spettacolo-simbolo del Piccolo Teatro, torna nella magica cornice dello Studio dal 15 aprile al 10 maggio.
Il fatto che in sessant’anni il ruolo di Arlecchino sia stato interpretato solo da due attori - Marcello Moretti e Ferruccio Soleri, che ne raccolse l’eredità nel 1963 - accresce il suo carattere di eccezionalità e di “arte della memoria”.

Ferruccio Soleri è ormai l’unico della compagnia ad aver lavorato per tutta la vita con Strehler, e come ha affermato la studiosa francese Myriam Tanant - è “diventato Arlecchino” abbracciando così una vocazione, capace di restituire con una straordinaria longevità scenica l’energia senza tempo del suo personaggio.
Spettacolo sempre carico di energia, Arlecchino continua a trasferire la sua grande vitalità alle platee di tutto il mondo; le quasi quattro settimane di permanenza milanese rappresentano un ritorno a casa, dopo la tappa in Turchia e prima di concludere, con il Giappone a luglio, la lunga tournée italiana e internazionale che lo ha visto riscuotere ovunque uno straordinario successo.
Lo spettacolo più longevo della storia (ha superato le 2500 repliche e i due milioni di spettatori) ha aggiunto - in questa stagione - ai 40 paesi e alle 200 città già toccate con le sue tournée, Ecuador e Turchia.

Lungi dal trasformarsi in uno “spettacolo-museo”, Arlecchino conferma così la sua natura di “memoria in azione” e il suo ruolo di ambasciatore indiscusso della Commedia dell’Arte nel mondo mai tanto vivacemente come in questo momento, in particolare con la creazione dell’Accademia internazionale della Commedia dell’Arte del Piccolo Teatro di Milano, diretta da Ferruccio Soleri, che, dopo il “debutto” a Mosca nell’autunno 2008, terrà a Brindisi un corso speciale – unico in Italia nel 2009 – dal 15 maggio al 7 giugno.

Piccolo Teatro Studio (via Rivoli 6 – M2 Lanza) – dal 15 aprile al 10 maggio 2009

Ellenica e Baiardo...

«Conobbi Ellenica una sera. Al termine di una violenta dimostrazione per le vie del paese, in cui avevo potuto calmare gli animi con poche e semplici parole. Mi apparve come una rondine ferita dalle ali infrante». Lei, invece, rimase affascinata da tanta forza e bellezza, in cuor suo lo chiamò subito Baiardo, il focoso cavallo dell’Orlando furioso e dopo qualche giorno gli scrisse: «Caro amico, se i vostri impegni politici e i vostri svaghi della domenica ve ne danno la possibilità, vorrete essere così cortese di venirmi a fare una visitina?».
Non è un romanzo, ma una storia d’amore vera, una passione struggente tra due persone che non ti saresti mai aspettato di vedere insieme: Edda Ciano (Ellenica), figlia del Duce al confino nell’isola di Lipari dal settembre 1945 al giugno dell’anno successivo, e Leonida Bongiorno (nel lessico della corrispondenza amorosa, Baiardo o Lecret dal nome del generale che combatté per la liberazione di Cuba nel 1898), capo dei comunisti liparoti, figlio dell’antifascista Eduardu, che ricalcando le carte nautiche ottenute da un amico aveva reso possibile nel 1929 la fuga degli antifascisti Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Fausto Nitti. Il padre di Leonida-Baiardo era uno di quegli uomini tutto d’un pezzo, primo trombone nella banda del paese che riponeva lo strumento quando bisognava intonare «Giovinezza».
Un socialista da sempre che teneva a un suo orgoglio anticonformista: quando gli americani gli chiesero di fare i nomi dei fascisti locali per vendicarsi, lui declinò l’invito. La soddisfazione se l’era presa da solo, tenendo la schiena dritta. Così il figlio, laureato in economia a Bologna, arruolato come tenente degli alpini, una rarità per un isolano, partigiano in Francia con il nome falso di Paul Zanetti dopo essere fuggito dalla prigionia dei nazisti. Un uomo intelligente ed energico che non aveva esitato a prendersi cura della «rondine dalle ali infrante», anche se era la figlia del Duce.
A raccontarci questa storia, dopo una tenace ricerca dei documenti — le lettere di Edda, il memoriale e i commenti di Leonida — è Marcello Sorgi, ex direttore della Stampa, nel libro "Edda Ciano e il comunista. L’inconfessabile passione della figlia del Duce" (in uscita da Rizzoli il 1° aprile, pagine 150, euro 18). Sorgi aveva anticipato la notizia sulle pagine culturali del quotidiano torinese il 1° ottobre dell’anno scorso. Il racconto si basava sulla lettura delle trascrizioni delle lettere, a volte in francese o in inglese, che, come in un romanzo di Alexandre Dumas, erano sepolte in un vecchio armadio nella casa di Edoardo, il figlio di Leonida, assieme a ciocche di capelli, biglietti, fotografie, annotazioni. Un materiale che Sorgi ha potuto esaminare per primo e ha elaborato in un racconto romantico e avvincente pur rispettando la verità fattuale. L’autore si è avvalso a tal fine della consulenza storica di Giovanni Sabbatucci.
I primi contatti fra Edda e Leonida sono interessati ma cauti. Lei, dopo essere stata scaricata in una stamberga nel centro dell’isola dal commissario Polito, lo stesso che aveva preso in consegna Benito Mussolini dopo il 25 luglio 1943, chiede al nuovo amico se può andare ad abitare nella casa di famiglia del Timparozzo, ribattezzata da Edda la «Petite Malmaison», secondo il nome che Josephine de Beauharnais aveva dato alla sua dimora dopo essere stata abbandonata da Napoleone. Leonida, con l’approvazione del padre, acconsente, e una notte di primavera, sulla terrazza di quella casa incantevole, avviene l’incontro d’amore. Lui la prende appoggiato al muro accarezzandole le gambe, secondo Edda la parte più bella del suo corpo di trentacinquenne. Il coetaneo Leonida-Baiardo si innamora, Edda-Ellenica sulle prime non si lascia andare: Ellenica partecipa al gioco erotico, scandalizza tutti esibendo sulle spiagge di Lipari e Vulcano un audace due pezzi, ma Edda è guardinga, ancora ferita dalla tragedia famigliare. Quando lui si dichiara, «voi per me potreste essere la donna ideale», quasi lo irride: «È possibile che io lo sia per tutti gli uomini?». Lui la ama e la teme, si sente un Ulisse con la sua Circe e le recita a memoria il passo dell’Odissea in cui la maga indica all’eroe omerico due rotte impossibili per far ritorno a Itaca. Lei gli risponde con i versi di Byron: «When we two parted...», «quando noi ci dividemmo, in silenzio e lacrime, i nostri cuori si spaccarono a metà».
La passione cresce e con l’amore la confidenza. Edda, al confino con l’accusa di aver spinto il padre a entrare in guerra, scrive un memoriale, probabilmente aiutata da Leonida, negando ogni responsabilità pubblica: «Nel partito non ebbi mai nessun incarico... Come moglie del ministro degli Esteri non potevo che seguire le direttive che mi venivano date».
Più che per questo memoriale, ma grazie all’amnistia Togliatti, a fine giugno 1946, arriva la comunicazione della libertà anticipata. In una cronaca maliziosa, un corrispondente del Corriere della Sera scrive che «l’elegante signora» pare poco interessata a lasciare l’isola, anche perché «non ha disdegnato l’assidua compagnia di un aitante giovane del luogo, il sig.LeonidaBongiorno».Edda, in realtà, ha interesse a ritornare a Roma, per riabbracciare i figli. Con sé porterà un ricordo: il suo ritratto nudo eseguito a matita dal bel Leonida. Comincia così la seconda parte della corrispondenza: lei lo vezzeggia, «caro amico e fidanzato», «Baiardo mi manca molto», abbandona i toni ironici degli inizi quando lo chiamava «adorabile allievo di sieur Palmiro». Ma aumentano i silenzi di Leonida, che intanto ha incontrato Angela, la futura moglie, detta la «Chevelue» per via della folta chioma. Ellenica e Baiardo si rivedono, il primo incontro in un hotel di Messina dove lei si presenta con una carta d’identità falsa. Poi il nuovo distacco. E la sempre più appassionata e dolorosa corrispondenza. Edda si lascia andare a confidenze: «Perché è toccato a me scegliere tra le due persone più care?», alludendo al marito giustiziato e al padre cui non aveva perdonato di non essere intervenuto. Alla fine il grido: «Venite dunque con me. Non abbandonate questa felicità che gli Dei vi offrono». Siamo alla fine. Le risposte di Leonida si faranno sempre più rare, sposerà Angela.
«Ellenica» e «Baiardo» si ritroveranno sessantenni nel 1971, ancora a Lipari, davanti a una parete su cui lui aveva fatto incidere i versi omerici con le parole di Circe: «Tu da solo col tuo cuore consigliati: io ti dirò le due rotte».
dal Blog di Dino Messina " La nostra Storia"


Alla meta

Dal 1 al 5 aprile Teatro Libero ospita lo spettacolo "Alla meta", messo in scena dal Teatrino Giullare, che attraverso un allestimento visionario si confronta con il delirio verbale di Thomas Bernhard - autore della pièce - e la vertiginosa profondità della sua scrittura.
L’umanità alterata dei personaggi di Bernhard si incontra felicemente con la poetica della compagnia, che ha fatto del rapporto tra umano ed 'artificio' il proprio terreno di ricerca.
La storia è presto detta: una madre e una figlia preparano la loro consueta partenza per il mare; tra vecchi vestiti e vecchi ricordi, aleggia l’agitazione per l’imminente arrivo del nuovo e quasi sconosciuto compagno di viaggio.

Messa in scena innovativa, questa del Teatrino Giullare, per uno spettacolo con soluzioni sceniche che esaltano il ritmo e la natura fascinosamente ambigua: fantocci ed esseri umani danno vita ad un intreccio controllato di menzogne e verità confondendosi gli uni con gli altri.
Il rituale del fare e disfare le valige e la sensazione angosciosa di raggiungere una meta che già sappiamo essere deludente, raccontate da un autore a tratti cinico, controverso, divertente, lucidissimo

Teatro Libero - via Savona 10, Milano